Autore:
 
Formato:
15 x 21 (cm)
Pagine:
650
Disponibilità:
SI
Prezzo:
20.00 €
 
 
Sintesi
 

Uno Stato che ispiri il proprio ordinamento al principio del recupero sociale dei condannati non dovrebbe tollerare che questi siano sottoposti ad una trama di norme e di disposizioni amministrative che ne paralizzano la capacità di autodeterminazione precludendo loro ogni possibilità di sviluppo della personalità e costringendoli, troppo spesso, a cercare semplicemente di sopravvivere, cioè di conformarsi passivamente alla schiacciante compressione di regole spersonalizzanti. Focalizzato su tale prospettiva, lo sguardo al percorso che il nostro Paese ha compiuto non restituisce, purtroppo, un quadro confortante. Se si riflette che dalla storica sentenza costituzionale n. 204 del 1974, ove si è solennemente affermato che il condannato è titolare del diritto a che, «verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo», si è giunti, a quarant’anni di distanza, alla umiliazione della messa sotto tutela europea sancita dalla sentenza Torreggiani dell’8 gennaio 2013, si ha la sensazione di un sostanziale fallimento dell’Ordinamento penitenziario nato con la riforma del 1975 (legge 26 luglio 1975, n. 354) e dell’indifferibilità di un mutamento di passo – culturale prima ancora che normativo – che non può attendere una nuova condanna della Corte di Strasburgo per essere compiuto. Il senso di questa ineludibile e urgente necessità è stato ben vivo in chi ha promosso un approccio inedito alla questione penitenziaria, istituendo gli Stati Generali dell’esecuzione penale: un laboratorio culturale composto da professori, magistrati, avvocati, operatori penitenziari, rappresentanti di associazioni, professionisti, ministri di culto, istituito tra il 2015 e il 2016 presso il Ministero della giustizia con l’obiettivo di accompagnare, sul versante culturale e scientifico, il percorso parlamentare del d.D.L. di delega oggi definitivamente legge e di sensibilizzare sull’oggetto della riforma l’opinione pubblica, nella consapevolezza che si tratta di tematiche da questa tradizionalmente poco sentite, se non apertamente avversate. E la stessa volontà politica ha ispirato e sostenuto il percorso legislativo sfociato nella promulgazione della L. 103/2017, pur non riuscendo a impedire che, nel corso del suo tormentato iter, il disegno di legge-delega soffrisse incisive modifiche e ripensamenti, perdendo in parte la coerenza della sua originaria impostazione senza nulla guadagnare, peraltro, in determinatezza. Pur scontando una gestazione così difficile, la Delega ha posto le premesse per il varo della più importante riforma in materia penitenziaria dalla legge n. 354 del 1975, che già aveva concepito il detenuto come soggetto di diritti, con un “ribaltamento” del tradizionale assetto dei rapporti tra Amministrazione e detenuto nell’istituzione penitenziaria (sino ad allora, per dirla con Foucault, “la chambre noire de la légalité”), connotati dalla preminenza del principio di autorità. La Commissione ha assunto come punto di riferimento nell’assolvere il proprio non facile mandato l’importante lascito degli Stati Generali e si è sentita particolarmente impegnata dal messaggio forte che promana da quell’importante contributo culturale vòlto ad una ricalibratura della fase dell’esecuzione penale sulle coordinate impresse dal dettato costituzionale. Si delineano, allora, i tratti di un ordinamento penitenziario nel quale non possono trovare spazio, qualunque sia il delitto commesso, «trattamenti contrari al senso di umanità» (art. 27 comma 3 Cost.); qualsivoglia «violenza fisica e morale sulla persona sottoposta a restrizione di libertà (art. 13 comma 4 Cost.); pratiche di sottoposizione «a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti» (art. 3 CEDU). In questa cornice ideale, nessuna limitazione alla fruizione dei diritti fondamentali può essere mantenuta se non nei limiti della stretta necessità, poiché ogni restrizione gratuita lede la dignità della persona ed ogni violazione della dignità del detenuto rende la pena illegittima (questo ha affermato, in sostanza, la Corte costituzionale con la sentenza n. 279 del 2013 in materia di differimento della pena nel caso di sovraffollamento carcerario). E infine: in ogni riforma “costituzionalmente orientata” la persona del detenuto dovrebbe essere considerata il “fine”, nella sua dignità di essere umano da recuperare, e non un “mezzo” per conseguire obiettivi diversi, neppure se afferenti ai valori massimi dello Stato, alla sicurezza sociale o al contrasto al terrorismo. In questo contesto valoriale, un intervento riformatore dovrebbe mirare alla responsabilizzazione del condannato, per consentirgli di operare scelte consapevoli, evitando di sottoporlo a prassi infantilizzanti che lo privino di ogni capacità o possibilità di autodeterminazione. Un ordinamento penitenziario che accolga ed attui i principi della Costituzione dovrebbe, inoltre, rifiutare, dal punto di vista ideale prima ancora che giuridico, presunzioni legali di irrecuperabilità sociale, dal momento che nessuna pena deve rimanere per sempre indifferente all’evoluzione psicologica e comportamentale del condannato, secondo un principio in più occasioni affermato dal Giudice delle leggi (ex multis, Corte cost., sent. 189/2010) e che non può non trovare concreta attuazione in una riforma che abbia a cuore la “messa a punto costituzionale” del sistema penitenziario. Non può, infatti, – come ha sottolineato anche la Corte di Strasburgo – essere annichilito il “diritto alla speranza”, che va riconosciuto al condannato (ad ogni condannato) e implica il dovere degli Stati di prevedere un riesame che permetta «di verificare se, durante l’esecuzione della pena, il detenuto abbia fatto dei progressi sulla via del riscatto tali che nessun motivo legittimo relativo alla pena permetta più di giustificare il suo mantenimento in detenzione» (CEDU, Grande Chambre, 9 luglio 2013, Vinter e altri c. Regno Unito). Tuttavia, se esiste il “diritto alla speranza” per ogni detenuto di accedere a misure esterne e, alla fine, di recuperare la propria libertà – e l’ordinamento è tenuto a garantirlo – purtuttavia tale diritto deve avere necessario contraltare nella responsabilizzazione dell’interessato a comportamenti coerenti con l’impegno nel progetto rieducativo, così che il ricollocamento sociale della persona condannata non possa procedere se non in sincrono con il suo sempre maggiore grado di adesione alle regole del vivere civile e alla sua capacità di rispettare i limiti – a volte anche gravosi – che gli sono imposti anche dalle misure esterne al carcere. Muovendo da tali premesse ideali si è sviluppato un complesso percorso di (ri)scrittura delle norme che – proprio per l’ampia latitudine dell’ideale posto a fondamento di tale ambizioso disegno – non poteva che coinvolgere l’intero corpus dell’esecuzione penitenziaria (la legge di ordinamento penitenziario, ma anche i codici penali sostanziale e processuale oltre a numerose leggi speciali, quali, a titolo di esempio, il testo unico sugli stupefacenti, la normativa giuslavoristica e quella sugli stranieri), per toccare, a volte, piani non immediatamente legati ai profili giuridici o giudiziari (si pensi all’importanza delle strutture architettoniche e, più in generale, dei “luoghi e spazi della pena”; al modello di vita detentiva; ai momenti di relazione degli operatori con il detenuto ed alla capacità degli stessi di incidere sul senso e sulla funzione della pena). Il risultato che la Commissione si è impegnata a realizzare è stato, in definitiva, quello di una riforma che andasse al cuore della funzione della pena e ne valorizzasse le potenzialità di recupero sociale, anche attraverso una necessaria progressività trattamentale: progressività orientata alla rinuncia dell’opzione carcerocentrica in favore di una più coraggiosa scelta di recupero del soggetto delinquente mediante articolate misure di comunità (oltretutto, meno onerose per lo Stato e dotate di una efficacia risocializzante ben maggiore del carcere), sulla scorta del dettato costituzionale (art. 27 comma 3 Cost.) che allude significativamente non già alla pena, bensì a pene la cui comune finalità è la rieducazione del condannato. Nel contesto detentivo – “male necessario” ed extrema ratio in assenza di ogni altra meno afflittiva soluzione – l’obiettivo perseguito è stato quello di innalzare il livello di tutela della dignità della persona detenuta o internata e quello di accrescere le possibilità che i suoi diritti fondamentali siano fruibili con le limitazioni minime rese necessarie da esigenze organizzative o preventive. Sul piano attuativo queste opzioni ideali di fondo si sono tradotte nella proposta di una riforma penitenziaria il cui contenuto si caratterizza, sul piano generale, anzitutto per l’introduzione di norme-manifesto (quali la nuova formulazione dell’art. 1, L. n. 354 del 1975, volto a riportare al centro della definizione normativa di “trattamento e rieducazione” le indicazioni costituzionali sulla legalità e sulla finalizzazione della pena, quali consegnate dal terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione; la modifica dell’art. 11 ord. penit., in materia di tutela della salute o dell’art. 20 in materia di accesso al lavoro), costruite quali “trasformatori permanenti di diritti fondamentali”, la cui riaffermazione nel corpo stesso della legge penitenziaria svolge, per un verso, la funzione di ribadire l’esigenza che l’amministrazione ne assicuri il rispetto e la fruizione all’interno del contesto penitenziario e, per l’altro verso, sgombera il campo da ogni possibile dubbio circa la tutelabilità apud iudicem dei medesimi. Sul versante del trattamento penitenziario sono state, inoltre, introdotte disposizioni che mirano a favorire l’effettivo esercizio, da parte dei soggetti detenuti, di alcuni importanti diritti fondamentali che neppure lo status detentionis può del tutto comprimere. L’idea che la restrizione della libertà personale possa comportare una capitis deminutio, infatti, «è estranea al vigente ordinamento costituzionale, il quale si basa sul primato della persona umana e dei suoi diritti. I diritti inviolabili dell’uomo, il riconoscimento e la garanzia dei quali l’art. 2 della Costituzione pone tra i principi fondamentali dell’ordine giuridico, trovano nella condizione di coloro i quali sono sottoposti a una restrizione della libertà personale i limiti a essa inerenti (…), ma non sono affatto annullati da tale condizione» (Corte cost. n. 26 del 1999). Su questo fondamento ideale l’intervento ha riguardato numerosi settori della vita detentiva (in materia di affettività, di colloqui intimi, di condizione di vita materiale all’interno degli stabilimenti penitenziari, di modalità dinamiche con le quali è esercitata la sorveglianza; di implementazione delle opportunità di comunicazione con il mondo esterno e di accesso all’informazione). Nella medesima prospettiva, si sono modellate norme volte a umanizzare l’esecuzione della pena (quali, a es., l’introduzione di una nuova ipotesi di permesso, concedibile per ragioni familiari di particolare rilevanza) e tutelare i soggetti che più facilmente possono subire pregiudizio dalla costrizione carceraria (in questa prospettiva, articolate disposizioni sono state approntate in favore delle detenute donne e a tutela delle possibili discriminazioni di genere e di orientamento sessuale). Una particolare attenzione è stata, inoltre, dedicata alla tematica del lavoro, sulla premessa che quest’ultimo, pur essendo elemento principale del trattamento (art. 15 ord. penit.), soffre di un cronico e gravissimo problema di effettività, determinato principalmente dallo scarso sviluppo del mercato del lavoro penitenziario, sia in termini di numero di posti lavorativi che di qualità dell’offerta. Anche in questo settore, la Commissione si è mossa nella direttrice di contemperamento delle esigenze concrete dell’amministrazione e di quelle afferenti alla rivitalizzazione di uno strumento essenziale al ricollocamento sociale del detenuto, alla sua promozione umana (labor omnia vincit, adsiduus) ed al recupero della dignità del medesimo nel suo contesto familiare e sociale. Una visione analoga ha guidato la Commissione nel modulare le forme e i termini delle attività riparative in favore della vittima del reato, non solo per armonizzare l’ordinamento interno alla ormai importante normativa nazionale ed europea (si veda, il D.Lgs. 15 dicembre 2015, n. 212, con il quale l’Italia ha recepito la Direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, che introduce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI), ma anche in chiave di recupero della collocazione sociale del reo, soprattutto nel caso si tratti di autore di reati nell’ambito familiare. Sotto questo importante profilo, una forte attenzione alla figura della persona offesa verrà dalla inedita disciplina della giustizia riparativa che altra Commissione si accinge a licenziare. Un intervento di ampio respiro ha, infine, ispirato proposte mirate a favorire l’accesso alle misure alternative, abbattendo i tempi di decisione della magistratura di sorveglianza, creando corsie preferenziali alle decisioni favorevoli all’interessato (v. le modifiche all’art. 678 c.p.p.) e minimizzando, per quanto possibile, l’impatto di circostanze negative sopravvenute sulla permanenza del condannato nel circuito di esecuzione esterna al carcere (si vedano, a es., le modifiche alle procedure di cui agli artt. 51-bis e 51-ter, ord. penit.). Nella stessa direzione, si è proposto un esteso intervento di sterilizzazione delle numerose preclusioni alle misure extramurarie che – in ragione del titolo di reato per cui il soggetto è stato condannato o per lo status di recidivo del medesimo – costellano la legge penitenziaria. Lo spostamento del baricentro dell’esecuzione penale verso le sanzioni di comunità è stato, peraltro, accompagnato da una selettiva rimodulazione dei presupposti per la concessione delle stesse e delle modalità per assicurare l’effettività del rispetto delle prescrizioni imposte. La Commissione, muovendosi sulle coordinate tracciate dalla Delega, mentre ha proposto soluzioni normative coerenti con l’obiettivo di promuovere l’accesso dei condannati alle misure di comunità e disposizioni atte a rimuovere – per quanto consentito dai limiti imposti dai criteri direttivi – le preclusioni normative esistenti rispetto a tale obiettivo, è contestualmente intervenuta sia sul versante della responsabilizzazione del condannato, precisando e arricchendo il corredo prescrizionale delle misure alternative (in particolare, operando sulle disposizioni in materia di affidamento in prova al servizio sociale), sia modellando opportunamente la disciplina sul controllo dei soggetti ammessi all’esecuzione penale esterna (ai quali è stata dedicata una norma ad hoc). La Commissione è ben consapevole dei limiti del lavoro licenziato e sottoposto agli interlocutori istituzionali. Non si tratta – o almeno non solo – delle criticità eventualmente ascrivibili alla responsabilità di quanti hanno contribuito alla sua realizzazione, o di quelle indotte dagli strettissimi margini temporali imposti e dalla concitata fase di fibrillazione del quadro politico; né delle inevitabili aporie dovute ai limiti tracciati dalla Delega, che ha imposto, in molti casi, scelte obbligate cui non corrispondevano le soluzioni più vicine alle sensibilità maturate in seno alla Commissione e – per inciso – neppure a quelle che avevano connotato inizialmente il disegno di legge-delega. S’intende alludere, piuttosto, al fatto che un intervento sulla fase di esecuzione penitenziaria cui non corrisponda, a monte, una revisione complessiva del sistema sanzionatorio sconta – per così dire – una penalizzazione iniziale che si riflette necessariamente sulla coerenza del progetto riformatore e sulle sue capacità di imprimere al sistema penale nel suo complesso l’auspicata “rivoluzione copernicana”: una rivoluzione in grado, da un lato, di porre fine, a livello edittale, al primato della pena detentiva grazie ad un articolato sistema di sanzioni extracarcerarie e, dall’altro, di emancipare l’ordinamento penitenziario dal compito di rimediare, in executivis, alla sua ipervalorizzazione, nel tentativo di attenuarne le ricadute nocive. Non ci si nasconde neppure che le speranze di successo che una così vasta riforma meriterebbe esaudite sono strettamente legate alla volontà politica di operare gli indispensabili investimenti, in termini materiali e di risorse umane, affinché si possano assolvere le nuove incombenze. A un sistema normativo che incentri il recupero sociale dei condannati sulla progressione nel trattamento e sulla centralità delle misure di comunità rispetto al carcere non può non corrispondere, infatti, sul versante amministrativo e organizzativo, una adeguata dotazione di personale incaricato di valutare il comportamento delle persone sottoposte a esecuzione penale e di fornire un efficace sostegno ai percorsi di graduale reinserimento nella comunità esterna, oltre a una rivisitazione delle proporzioni quantitative fra personale addetto alla sorveglianza e quello operante nel settore della rieducazione. All’introduzione delle norme di nuovo conio deve, quindi, accompagnarsi, quale indispensabile corredo per garantirne l’effettività, un intervento urgente per rimediare alle attuali vacanze di personale che interessano gli organici dell’area giuridico-pedagogica, degli Uepe e degli Uffici di sorveglianza, già oggi in grave difficoltà. In questa prospettiva, speciale importanza assume il ruolo che la proposta di riforma affida alla Polizia penitenziaria, della quale si raccomanda la valorizzazione e la formazione multidisciplinare, in modo che i suoi componenti sviluppino sempre più quelle competenze necessarie alla delicatissima funzione “anfibia”, che sono chiamati ad assolvere: di agenti di custodia e di recupero, di controllori e di osservatori di prima prossimità. Da un lato, infatti, essi devono, sia garantire, intramoenia, la sicurezza degli operatori e dei detenuti – usando, nei confronti di questi, metodi rispettosi, ma se necessario idonei a consentire un pronto recupero dell’ordine interno – sia controllare, extramoenia, l’osservanza delle prescrizioni impartite al condannato ammesso ad una misura di comunità. Dall’altro, essi devono sapersi avvalere delle opportunità offerte, nella realtà carceraria, dal privilegiato osservatorio della vigilanza dinamica e, nell’esecuzione esterna, dalla collaborazione con l’Uepe, per raccogliere preziosi elementi di conoscenza della personalità e delle potenzialità del condannato o dell’internato, che possano concorrere a meglio individualizzare il suo percorso di reinserimento. È, altresì, forte la consapevolezza che saranno decisivi, dal punto di vista del successo della riforma, i risultati che gli Stati Generali possono avere conseguito nel sensibilizzare l’opinione pubblica sulle problematiche del carcere e dell’esecuzione penale. Se è vero, infatti, che anche le leggi, come le idee “camminano sulle gambe degli uomini”, soltanto se i cittadini avranno pieno avviso del valore di civiltà connesso al rispetto dei diritti fondamentali delle persone detenute e al recupero sociale dei condannati, queste proposte, nella misura in cui si cristallizzeranno in norme, avranno la possibilità di durare più oltre dell’espace d’un matin. E sarebbe davvero amaro se il destino di questa stagione riformatrice dipendesse dalla diffusissima convinzione che solo il carcere e non anche – e soprattutto – le misure di comunità svolgano efficacemente la funzione di garantire la sicurezza dei cittadini. In effetti, statisticamente risulta vero il contrario: ben il sessantanove per cento delle persone che hanno scontato la pena in regime carcerario, infatti, una volta uscito dal carcere commette nuovi reati e rientra nel circuito detentivo, mentre soltanto il diciannove per cento di coloro che hanno avuto accesso all’esecuzione penale esterna ritorna a delinquere. Le ragioni di questa assai significativa differenza sono molteplici, ma sicuramente una delle rilevanti consiste nel fatto che per gli ammessi alle misure di comunità è previsto e attuato un accompagnamento verso l’acquisizione del senso di responsabilità nei confronti degli altri, supporto che, generalmente, manca negli istituti penitenziari, dove chi vi è recluso, quotidianamente in contatto con altri autori di reato, instaura relazioni che spesso indirizzano su strade senza ritorno quelle negative scelte di vita che il trattamento rieducativo – se fosse dispensato con le necessarie risorse – potrebbe, invece, contribuire a far definitivamente abbandonare. Si guarda, per questa ragione, con preoccupazione alla eventualità che la proposta che qui si sottopone all’attenzione possa non essere recepita dal legislatore in tutte le sue parti o che, se pure integralmente condivisa, possa scontrarsi con la crisi di rigetto di un’opinione pubblica confusa e impaurita dal clima di insicurezza alimentato, troppo spesso, dagli organi dell’informazione. Circostanze, la seconda più della prima, che provocherebbero inevitabilmente l’offuscamento del disegno riformatore complessivo e – in ultima analisi – sancirebbero la sconfitta di quei principi ideali che, con serena convinzione, sono stati posti alla base di questo difficile lavoro.

   
 
 
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