Alessandra D’Atena e Rossana Sebellin
Osservazioni introduttive
Il numero monografico Style and Literary (Self-)Translation raccoglie i risultati di una ricerca interdisciplinare sullo stile e la traduzione letteraria interlinguisti-ca del XX e del XXI secolo, proponendo metodi di analisi dello stile di testi tradotti, ritradotti e autotradotti, come anche dello stile di traduttori allografi e di autotraduttori, cioè di autori che hanno tradotto proprie opere.
A dare avvio a questa indagine è stato il ciclo di conferenze e workshops intitolato Autotraduzioni e traduzioni allografe del XX e del XXI secolo: una ricerca sullo stile del traduttore e dell’autotraduttore letterario / Self-translations and Translations of the 20th and 21st Century: an investigation on the style of literary translators and self-translators svoltosi online, dal mese di maggio al mese di dicembre del 2021, sulla piattaforma Google Meet dell’Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale. L’iniziativa – a carattere internazionale – è nata grazie a una sinergia tra il Laboratorio di Tecnologia, Narrativa e Analisi del Linguaggio (TECNAL) del Dipartimento di Scienze Umane, Sociali e della Salute dell’Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale (responsabile scientifico Roberto Baronti Marchiò) e il gruppo di ricerca Mediatori e Traduttori Europei (METE) del Dipartimento di Storia, Patrimonio culturale, Formazione e Società dell’Università di Roma Tor Vergata (coordinatrice Gabriella Catalano). Gli obiettivi di ricerca di questo ciclo sono frutto delle attività di un più piccolo gruppo di lavoro e di ricerca sull’autotraduzione e sulla traduzione letteraria del XX e del XXI secolo, formato da Rainier Grutman (University of Ottawa), Eva Gentes (Düsseldorf), Rossana Sebellin (METE, Università di Roma Tor Vergata), Simona Anselmi (Università Cattolica di Milano e Piacenza) e coordinato da Alessandra D’Atena (METE e TECNAL, Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale).
I vari metodi di analisi stilistica che emergono dai contributi di questo numero monografico sono espressione di approcci diversi e della loro combinazione, elaborati in seno alla linguistica, alla critica letteraria, ai (self-) translation studies, alla translational stylistics, alla stilistica testuale, alla filologia e alla critica genetica. Tali metodi sono stati di volta in volta applicati allo studio di generi testuali differenti, appartenenti alle tre classi della lirica, del dramma e della narrazione in prosa.
Oltre a offrire molteplici approcci di analisi stilistica, le ricerche condotte individuano i fattori che influenzano lo stile di testi in traduzione. In questa maniera viene perseguito, come si legge nel contributo di Alessandra D’Atena, un «attuale obiettivo di ricerca nell’ambito dei self-translation studies: di verificare, cioè, se le autotraduzioni presentino elementi di specificità rispetto alle traduzioni allografe». I dati testuali presi in esame documentano se l’autotraduzione e la traduzione allografa siano soggette agli stessi vincoli. La questione viene messa a fuoco con estrema chiarezza da Simona Anselmi, la quale parte dalle seguenti affermazioni tratte dal saggio di Kirsten Malmkjær intitolato Translational stylistics: Dulcken’s translations of Hans Christian Andersen (2004): il testo di partenza sarebbe il risultato di un processo che consisterebbe nel compiere una serie di scelte ‘libere e incondizionate’ («free and unconstrained»). Lo stesso non varrebbe per la traduzione, perché decidendo di tradurre, un traduttore, «however creative, commits to a willing suspension of freedom to invent», e si impegnerebbe a creare «a text that stands to its source text in a relationship of direct mediation as opposed to being subject to more general intertextual influences». Secondo Anselmi l’autotraduzione è il risultato del processo di un autore, che è al contempo una writing persona e una translating persona, e che, decidendo di tradurre la propria opera, accetterebbe una ‘volontaria sospensione della propria libertà di inventare’. Contribuire a far luce sui diversi tipi di vincoli a cui soggiacciono traduzioni, ritraduzioni e autotraduzioni è uno degli obiettivi di questo volume.
Si danno quindi alle stampe – nelle sezioni La Voce e Dimore – sia contributi che si soffermano esclusivamente su traduzioni, ritraduzioni o autotraduzioni, sia studi che mettono a confronto traduzioni e autotraduzioni dello stesso autore oppure autotraduzioni e traduzioni dello stesso testo di partenza.
Nel suo saggio intitolato “Stilus operis: paratassi e passato prossimo nelle traduzioni italiane de L’Étranger di Albert Camus” Rainier Grutman osserva in che maniera vengono resi in traduzione due principali stilemi che caratterizzano lo stile del romanzo di Camus: la paratassi, all’interno della quale ciascuna frase è isolata dall’altra, e l’impiego del passé composé al posto del passé simple, «il tempo letterario per eccellenza». Come illustra Grutman, i due stilemi sono aspetti di uno stile testuale che non è rappresentativo per l’ouvre dell’autore, con il quale Camus compie una vera e propria «rivoluzione stilistica». Il traduttore si trova dunque per Grutman di fronte a un «dilemma»: se restituire lo «stilus operis» o se produrre una traduzione che rispecchi lo stile dell’autore Camus e la sua «aura pubblica» di «sofisticato» intellettuale francese. Adottando una prospettiva storica, Grutman chiarisce che la seconda modalità traduttiva «rientra in una logica, ereditata dall’epoca romantica, che lega “l’opera” al suo “creatore”», e che la prima è espressione di una concezione «postmoderna o almeno post-romantica» che mette al centro il testo e i suoi effetti sul lettore.
L’analisi di Grutman mette a confronto lo stile della prima versione de L’Étranger (1942) con quello della prima traduzione inglese di Stuart Gilbert (1946), della prima traduzione italiana di Albero Zevi (Lo straniero, 1947) e della prima traduzione in spagnolo dell’argentino Bonifacio del Carril (1949). Inoltre, sottolineando «la natura fondalmentamente intertestuale» delle ritraduzioni, dal momento che le ritraduzioni «non hanno mai in realtà un solo testo di partenza ma ne hanno diversi», confronta lo stile della ritraduzione italiana del 2015 di Sergio Claudio Perroni con lo stile de Lo straniero di Zevi e con quello del testo di Camus nella sua prima versione e in quella di un’edizione successiva, pubblicata dopo la traduzione di Zevi. Lo studioso non si limita a interpretare i testi a partire dai loro elementi linguistici e stilistici e a descrivere le modalità traduttive; egli risale anche ai fattori che le hanno influenzate: la struttura della lingua di partenza e quella della lingua d’arrivo e il suo sviluppo; il rapporto tra il traduttore e l’autore; lo habitus scribendi del traduttore che è anche scrittore; la lettura che il traduttore dà dell’opera che traduce, che viene influenzata dagli studi critici sulla stessa.
Kirsten Malmkjær, nel saggio intitolato “The translations of Frøken Smillas fornemmelse for sne: Is it really just a matter of style?” mette a confronto passi tratti dal romanzo di Peter Høeg e le due traduzioni in inglese, una a firma di Tiina Nunnally (Smilla’s Sense of Snow) e circolata nel mercato statunitense (US), e una a firma «F. David» (Miss Smilla’s Feeling for Snow) pubblicata nel Regno Unito (UK). Quest’ultima versione, pur partendo dalla traduzione di Nunnally, vede l’intervento dell’autore, che non condivideva molte delle scelte traduttive di Nunnally sulla base di considerazioni stilistiche, sintattiche e lessicali. Malmkjær sostiene che vi sia uno stretto legame tra stile e significato («connection between style and meaning»). L’autrice concepisce il significato, con Lewis, quale entità complessa risultante dalle funzioni di elementi che caratterizzano il contesto, tra i quali vanno compresi «a time, a place, a speaker, an audience, something being talked about, and previous discourse». La studiosa dimostra che lo stile influenza sempre il significato. Illuminante in questo senso sono le interpretazioni ricavate a partire dall’analisi sintattica di determinati brani. Malmkjær documenta infatti che l’ordine dei costituenti di frase incide non solo sulla determinazione del tema (Halliday 2004 [1985]) della frase, ma anche sulla realtà rappresentata, perché l’ordine sintattico rispecchia il modo in cui il narratore percepisce la realtà che descrive, come anche la sequenza dei suoi pensieri. Questo ordine, a sua volta, determina il modo nel quale il lettore percepisce e tematizza i sintagmi della frase. Gli esempi riportati mostrano che la versione inglese, che è la traduzione (US) rivista dall’autore, è più vicina al testo di partenza e cerca di restituirne lo stile estraniante: secondo l’autrice, infatti, anche il romanzo in danese non costituisce una lettura facile e questo elemento è corretto che trascolori nella traduzione. I numerosi esempi citati da Malmkjaer confutano quindi le critiche mosse da Satterlee (1996) alla traduzione UK. Satterlee vedeva nella traduzione con interpolazioni autoriali una perdita di leggibilità, mentre secondo Malmkjær le scelte effettuate dall’autore del romanzo sono più vicine allo stile del testo in danese.
Un particolare tipo di ritraduzione, eseguita a distanza di anni senza leggere la prima traduzione, è quella su cui riflette il poeta Franco Buffoni, in questa sede nella doppia veste di traduttore e traduttologo. Nel suo scritto intitolato “Ritraducendo Seamus Heaney” Buffoni va alla ricerca delle ragioni che lo hanno portato, nel 1995, a ritradurre la poesia North di Heaney in una maniera profondamente diversa rispetto a quella con la quale l’aveva resa nel 1987. L’attenzione del traduttologo è attirata in particolare dalla «differenza di ritmo, di complessiva intonazione» che presentano i due versi iniziali delle sue versioni; differenza determinata in larga misura dall’uso del passato prossimo nella prima stesura e del passato remoto nella seconda. A venire in aiuto allo studioso è la definizione di poetica di Luciano Anceschi (1936), in particolare per quel che riguarda due concetti che Buffoni interpreta così:
Che cosa significano davvero «le moralità» e «gli ideali»? Significano che un autore e/o traduttore si nutre non solo di cultura ma anche di ciò che gli sta attorno, della vita che conduce, dell’inflessione dialettale con cui gli si rivolgevano le persone care quando era bambino, del primo sapore del pane: tutto questo forma il nostro “sentire” e resta il fondamento di ciò che scriviamo, di ciò che sentiamo.
Fondamentale è per Buffoni il momento in cui, per il poeta-traduttore, il ritmo «si fa parola, cioè diventa linguaggio, e dunque si realizza attraverso una particolare intonazione»; il ritmo concepito «come una vibrazione che attraversa il mondo» e il corpo umano e che, infine, «si fa parola». Tale concezione farebbe «cadere la differenza storica tra prosa e poesia». «La vera differenza» è per Buffoni «tra una scrittura che possiede un proprio respiro (un proprio ritmo) e una scrittura che ne è priva» e che non è arte. Le riflessioni di Buffoni fanno perno su «cinque punti fondamentali», «tutti coniugabili tra loro: poetica, ritmo, intertestualità, avantesto, movimento del linguaggio nel tempo». L’importanza della conoscenza dell’avantesto per il traduttore viene dimostrata da Buffoni facendo notare in che maniera la conoscenza delle «cinque versioni preparatorie» della poesia North abbia inciso sulla sua ritraduzione differen-ziandola dalla prima traduzione, che aveva eseguito senza avere a disposizione l’avantesto.
A far luce sull’opera di Seamus Heaney è anche il saggio di Rosella Tinaburri intitolato “«He knew what they have tholed»: lo stile di Seamus Heaney traduttore del Beowulf”, che si concentra sulla traduzione di Heaney del «più importante poema della letteratura anglosassone», pubblicata in inglese moderno nel 1999, che per Tinaburri costituisce una «tappa fondamentale» «della produzione del poeta irlandese». Prendendo le mosse dall’introduzione dello stesso Heaney al suo Beowulf, in cui l’autore dichiara di voler «proporre una vera e propria “poetic re-creation”», l’autrice confronta lo stile dell’incipit del poema anglosassone con quello del testo di Heaney andando alla ricerca degli stilemi che consentono a quest’ultimo di «superare la distanza temporale e linguistica di cui sembrano soffrire molte delle moderne versioni del Beowulf». La studiosa si sofferma su stilemi appartenenti alla struttura superficiale, sintattica, lessicale, nonché alla struttura metrica e fonologica, e fa notare in che misura Heaney ricorra a elementi stilistici della modernità o della tradizione. Nel lavoro di Tinaburri l’individuazione dei singoli stilemi è accompagnata dall’osservazione dei loro effetti sulla ricezione individuale del testo. Ecco perché l’analisi filologica, che rende conto della misura in cui l’inglese antico è presente nell’inglese moderno e nel dialetto dell’Ulster, aiuta a comprendere le ragioni profonde di mirate scelte traduttive del poeta irlandese. Lo studio fa emergere l’articolata composizione stilistica del testo di Heaney, che anche l’autrice concepisce quale «ri-creazione poetica»; per Tinaburri questa ri-creazione risente delle «esperienze culturali maturate dal traduttore, dall’artista, dall’uomo».
Il contributo di Marina Foschi Albert, intitolato “Tradurre lo stile – tradurre con stile: due esempi di analisi dello stile di genere (il microgiallo) e individuale (Elf Söhne di Kafka)” illustra un metodo di analisi dello stile del testo appartenente al genere narrativo che è «ispirato ai principi della stilistica testuale di scuola tedesca». Tale metodo può essere applicato anche allo studio dello stile del testo in traduzione, dal momento che per la stilistica testuale «non si pone distinzione tra testo originale (T1) e tradotto (T2): ogni testo ha una dimensione autonoma, di cui lo stile è componente strutturale». Facendo riferimento alla teoria della Gestalt, lo stile individuale del testo viene inteso da Foschi Albert come «fenomeno percepibile quale insieme, come Gestalt, nel momento in cui l’interprete ricostruisce i collegamenti tra forma e contenuto, attribuendo senso a un insieme di stilemi». La percezione soggettiva dello stile si basa quindi su elementi testuali oggettivi. L’analisi di Foschi Albert ha come obiettivo la valutazione dello stile del testo «in termini di conformità o non conformità» rispetto a un tertium comparationis, che per il testo originale è lo stile di genere e per il testo in traduzione è, a seconda dello scopo della ricerca, lo stile del testo di partenza e/o lo stile di genere. Dopo avere messo a fuoco gli stilemi che caratterizzano il genere minore del microgiallo, la studiosa confronta tratti stilistici del microgiallo Nicht einschlafen (2010) di Sebastian Fitzek e della sua traduzione italiana a cura di Biagioni (2019/2020), e determina poi se il T1 sia più conforme del T2 allo stile di genere. Confrontando invece tratti stilistici del racconto breve Elf Söhne (1919) di Franz Kafka con quelli di sue traduzioni, Foschi Albert valuta se lo stile delle traduzioni sia conforme al profilo stilistico «sui generis» della versione originale di Kafka, i cui stilemi trasmettono «l’impressione di una narrazione-non narrazione». Le traduzioni prese in esame sono la versione inglese (Eleven Sons, 1946) di Wolfgang Hildesheimer, quella italiana dell’edizione Frassinelli del 1949 curata da Anita Rho (Undici figli) e la ritraduzione dallo stesso titolo pubblicata online nel 2012 dal blogger Nicola Spinosi.
La concezione di Marina Foschi Albert dello stile individuale del testo inteso come Gestalt, così come il metodo di analisi di tale stile ai vari livelli della strutturazione del testo, da lei presentato e applicato allo studio del testo in prosa (2016 [2009]), formano la base dell’impianto teorico e metodologico del contributo intitolato “Von oben gesehen / Seen from above di Hans Magnus Enzensberger: un’analisi stilistica”, con il quale Alessandra D’Atena sperimenta e propone un metodo di analisi dello stile individuale di testi poetici (auto)tradotti. Per poter studiare il livello fonetico-fonologico del testo poetico, D’Atena si serve anche «dei pattern (“paragrammi”) individuati da Domenico Silvestri [1996] e del suo metodo di analisi linguistica della poesia» e suddivide «il piano lessicale che Foschi Albert fa rientrare nella “struttura lessicale e grammaticale” in due piani distinti: quello lessicale […] e quello fonetico-fonologico». Per D’Atena «è nel momento in cui si colgono […] le relazioni di senso tra gli stilemi e si formano i segni linguistici del testo poetico con i propri significati per poi metterli in relazione al tema del testo e alla poetica del suo autore, che la Gestalt appare in maniera distinta quale “struttura parlante”». Come esempio di tale processo di ricezione stilistica D’Atena propone una lettura della poesia Von oben gesehen tratta dalla raccolta Kiosk. Neue Gedichte (1995) di Enzensberger. Il lavoro non è tuttavia dedicato solo allo stile di Von oben gesehen. D’Atena esegue infatti anche uno studio delle varianti che l’autotraduzione inedita Seen from above presenta rispetto al testo di partenza, risalendo allo loro logica e illustrandone gli effetti. Per quel che riguarda la logica delle varianti, la studiosa indaga se esse siano dovute «alle differenze strutturali tra il tedesco e l’inglese e in che misura siano invece riconducibili a esigenze stilistiche o ad altri fattori ancora». Quanto alle varianti che corrispondono a esigenze stilistiche, D’Atena documenta in che misura le varianti lessicali o sintattiche siano «lo strumento per realizzare stilemi collocati a livello fonetico e fonologico e che caratterizzano lo stile del testo di partenza». In questa maniera, adottando una prospettiva di studio che, è, al contempo, text-oriented, reader-oriented e writer-oriented, stabilisce se lo stile dell’autotraduzione in inglese sia conforme rispetto allo stile del testo di partenza in tedesco.
Due contributi, quello di Simona Munari e quello di Chiara Sinatra, sono dedicati all’opera di Alba de Céspedes. Simona Munari si occupa del bilinguismo franco-italiano della scrittrice nel suo saggio intitolato “Scrittura sperimentale e parola poetica nel percorso autotraduttivo di Alba de Céspedes”, nel quale studia la scrittura autotraduttiva della raccolta poetica Chansons des filles de mai (1968) / Le ragazze di maggio (1970) e del romanzo sperimentale Sans autre lieu que la nuit (1973) / Nel buio della notte (1976) da un punto di vista genetico, ricostruendo le fasi traduttive dallo studio delle carte d’archivio presenti presso la Fondazione Mondadori. Munari tratta il periodo francofono dell’autrice: influenzata dagli stilemi tipici del Nouveau Roman, de Céspedes attua quella che Munari definisce una riscrittura traducente. Il translinguismo temporaneo di de Céspedes, come scrittrice dal «bilinguismo “ibrido”», vede l’autrice scrivere in francese e succesivamente autotradurre le composizioni francofone in italiano. Avvalendosi dei materiali d’archivio e di un approccio traduttologico, Munari ricostruisce le revisioni stilistiche operate dall’autrice alla sua prima esperienza autotraduttiva. Le numerose revisioni mostrano sia il tentativo di restituire la marca di oralità presente nel testo francese, sia la normalizzazione di diversi elementi (toponimi, elementi culturospecifici) che invece sottraggono immediatezza agli elementi di oralità tipici della versione in francese. Secondo Munari, de Céspedes, nella veste di traduttrice, elabora strategie proprie della traduzione d’autore e si riappropria, anche in questa veste, delle sue prerogative autoriali. In particolare, nel romanzo passa per una serie di fasi ritraduttive che esplorano la dimensione soprattutto lessicale, in una spasmodica accumulazione di sinonimi alla ricerca del termine corretto, del traducente più adatto. Munari individua inoltre, nel percorso artistico di de Céspedes, la sua maturazione metalinguistica che fa emergere una doppia autorialità; questa, a sua volta, avrebbe potenzialmente innescato ricadute anche sulla versione francese del testo, del quale l’autrice aveva chiesto una revisione, che però non viene accolta dall’editore. Secondo la acuta interpretazione di Munari, quindi, il percorso di autotraduzione diviene per l’autrice un cammino di maturazione artistica ed estetica.
Della stessa autrice, come si è detto, ma di un fenomeno diverso, tratta il saggio di Chiara Sinatra: nel suo articolo intitolato “Lo stile, la scrittura e la voce di Alba de Céspedes in spagnolo: Cuaderno prohibido tra traduzioni allografe e riduzioni teatrali”, Sinatra si occupa del romanzo che de Céspedes pubblica in italiano nel 1952 (Quaderno proibito) e delle traduzioni allografe in castigliano, una del 1958 (Cuaderno prohibido, tradotto da Rosa Sánchez de Naveira) con relative revisioni, e una più recente del 2017 (El cuaderno prohibido, tradotto da Pepa Linares). Attraverso l’utilizzo della linguistica dei corpora integrata a un approccio legato ai translation studies, e mettendo a confronto le varie traduzioni con l’originale, Sinatra individua le caratteristiche stilistiche del testo di partenza che vengono conservate o meno nelle traduzioni in castigliano, concentrandosi nello specifico su questioni di carattere lessicale. Nel puntuale confronto tra esempi tratti dalla traduzione del 1958 e da quella del 2017 e relativa interpretazione, Sinatra mostra come la trattazione della protagonista sia stata modificata nelle due versioni castigliane prodotte quasi sessant’anni l’una dall’altra. Attraverso lo studio dei materiali d’archivio del fondo de Céspedes conservati presso la Fondazione Mondadori vengono inoltre messi in evidenza da Sinatra i numerosi contributi che l’autrice, ispanofona dalla nascita, fornisce ai primi traduttori del suo testo teatrale, riduzione del romanzo dal titolo Quaderno proibito. Commedia in due tempi (1961). Benché de Céspedes non si autotraduca mai in spagnolo, Sinatra dimostra che l’autrice mantiene una forma di controllo anche sulle versioni dei suoi scritti che circolano in Spagna. È soprattutto all’oralità che de Céspedes è attenta, è la sua voce che deve risuonare nella traduzione del regista Carlos Suárez Radillo, col quale l’autrice instaura un dialogo continuo e fecondo.
I contributi di Simona Anselmi e di Rossana Sebellin mettono a confronto autotraduzioni e traduzioni allografe: mentre Anselmi si concentra su autotraduzioni e traduzioni allografe eseguite dallo stesso autore, Sebellin prende in esame autotraduzioni e traduzioni dello stesso testo di partenza.
Nel suo saggio “Towards self-translational stylistics: Andrea Zanzotto’s self-translations and allograph translations” Simona Anselmi confronta le scelte stilistiche compiute da Andrea Zanzotto, da un lato, nella traduzione in italiano di proprie liriche precedentemente composte in dialetto o in inglese, e, dall’altro, nelle sue traduzioni dal francese di poesie altrui (tra cui Breyten Breytenbach, Paul Éluard, André Frénaud, Henri Michaux, Arthur Rimbaud, Pierre de Ronsard, Paul Valéry). In questa maniera verifica se il poeta abbia impiegato strategie traduttive simili nelle due situazioni traduttive e se le varianti che le sue traduzioni e autotraduzioni presentano rispetto ai testi di partenza siano espressione del suo stile di scrittura. L’analisi è stata svolta individuando elementi stilistici lessicali e sintattici nei testi di partenza e di arrivo. I testi di partenza delle autotraduzioni sono stati tratti dalle raccolte Filò (1976), Idioma (1986), Sovrimpressioni (2001), Conglomerati (2009) e da Haiku for a Season (2012), che accoglie «pseudo-haiku» composti in inglese nel 1984. Partendo dai risultati ottenuti nell’ambito dei translation studies, e tenendo conto delle ricerche nell’ambito dei self-translation studies, Simona Anselmi pone le basi per una «self-translational stylistics».
Nel suo contributo intitolato “Autotraduzione e traduzione allografa: il caso di Not I / Non io / Pas moi di Beckett. Stili a confronto”, – dopo una breve panoramica teorica sullo stile di traduzione – Rossana Sebellin passa a individuare quali siano le caratteristiche dello stile specifico del testo in esame, un breve dramma sperimentale scritto da Beckett all’inizio degli anni ’70 del Novecento. Not I si caratterizza per una estrema frammentazione dell’eloquio del personaggio femminile monologante che va di pari passo alla velocità di esecuzione, richiesta alle attrici nelle regie beckettiane. Nel confronto tra testo originale, traduzione allografa, e autotraduzione, Sebellin mostra come considerazioni di tipo stilistico siano fondamentali per una corretta interpretazione del testo e, quindi, della traduzione. La versione italiana di John Francis Lane, pur rendendo in modo corretto i sintagmi e i frammenti di frase che costituiscono il monologo, non tiene conto del ritmo degli stessi frammenti e dell’effetto che la rapidità di esecuzione, che Sebellin ritiene inscritta nel testo, hanno sul lettore e soprattutto sul pubblico. I diversi esempi citati mostrano come la versione italiana risulti più lunga e meno dicibile – da un punto di vista teatrale – rispetto a quella inglese, e anche rispetto all’autotraduzione francese. Il risultato è una resa più lenta e insistita sugli aspetti emotivi, che invece non compaiono nel testo beckettiano. Il successivo raffronto con l’autotraduzione dimostra che l’autore-traduttore si concentra infatti proprio sulla resa ritmica e sul mantenimento dell’andamento sonoro dei sintagmi, più che sulla fedeltà semantica o lessicale. Sebellin indaga infine quale possa essere il ruolo delle auototraduzioni (intese come prodotto) nella dinamica delle traduzioni allografe in altre lingue: i traduttori hanno infatti due originali tra i quali scegliere. Le scelte autoriali possono costituire una guida o un ostacolo per chi traduce in una lingua terza, come nel caso analizzato in questo contributo.
Il tema dell’autotraduzione è anche oggetto di due contributi pubblicati, rispettivamente, nella sezione Alfieriana e in quella intitolata Agorà: il saggio di Chiara Montini dal titolo “L’autotraduzione: genesi del monolinguismo alfie-riano” e quello di Maria Teresa Giaveri e Eleonora Hotineanu intitolato “Cas particuliers d’autotraduction”.
Secondo Montini, per Vittorio Alfieri il processo di autotraduzione, che è «parte» del suo «processo creativo», costituisce il passaggio dal periodo di composizione in francese alla scrittura nella sua lingua poetica toscana, che per lo scrittore nato ad Asti, che trovò a Firenze la propria «“patria” letteraria e linguistica», era allora «l’amato idioma in corso di apprendimento» e lingua «di elezione». L’autotraduzione funge dunque «da ponte» tra «due epoche, quella giovanile e quella della virilità» e mette «in relazione le due culture dominanti per Alfieri, quella francese a lui contemporanea, considerata fatua, e quella italiana più vicina al classicismo, che ambisce al sublime». Ciò trova riscontro nella genesi della tragedia intitolata Filippo che Montini ricostruisce sulla base dei documenti riportanti le stesure dell’opera e tenendo conto delle istruzioni e delle affermazioni di Alfieri, a partire da quelle sulle successive fasi del suo processo di scrittura: «ideare»; «stendere»; «verseggiare»; «limare, levare, mutare». Composta in francese (la prima stesura risale al 1775), la tragedia viene tradotta dall’autore in italiano; all’autotraduzione segue una quasi decennale versificazione nella lingua poetica toscana (la prima versificazione è tra il 1775 e il 1776) che dà vita a più stesure; dopo l’edizione senese in versi del 1782, l’autore rivede ulteriormente i versi, e durante tale fase di revisione (1783-1784), l’opera viene ritradotta in francese. Chiara Montini si interroga sulla funzione svolta dalla nuova versione francese eseguita mentre era ancora in corso la versificazione italiana. I manoscritti su cui si basa la ricostruzione della traduzione verso il francese sono: la traduzione integrale (1783-1784) di Luisa Stolberg, contessa D’Albany e compagna di Alfieri, eseguita «in parte sull’edizione senese ma anche su correzioni successive»; alcune scene tradotte da Stolberg con commenti di Alfieri, che possono essere considerate traduzioni in collaborazione con l’autore; una parte autotradotta «eseguita sull’edizione in corso di elaborazione che segue quella senese». In conclusione, attraverso lo studio dell’autotraduzione da e verso il francese, Montini fa luce sulla genesi della versione nella lingua poetica toscana e su quella del monolinguismo poetico di Alfieri, a cui lo scrittore approda dopo un periodo bilingue.
Nel lungo dialogo-intervista che Maria Teresa Giaveri intrattiene con Eleonora Hotineanu, vengono presi in considerazione diversi casi e diversi aspetti dell’autotraduzione, del plurilinguismo, del multilinguismo e della intertestualità che questo comporta. Il contributo ruota intorno a contesti che hanno in comune la francofonia e diverse altre lingue (russo, moldavo, romeno, yiddish, e così via), a partire dal XIX secolo in poi. Suddivisa in sedici sezioni di lunghezza eteroge-nea, l’intervista, che prende il titolo di “Cas particuliers d’autotraduction”, si apre con l’interessante questione dell’autotraduzione onomastica, ovvero di quegli autori che «essayent de se repositionner artistiquement dans la langue du pays d’accueil» modificando il proprio nome, come ad esempio Benjamin Fondane, Tristan Tzara, Ilarie Voronca, Eugène Ionesco. La sezione successiva indaga invece i mondi pluriculturali all’incrocio di diverse lingue e culture: romanze (moldavo-romeno e francese) e slave. Il nucleo di questo pluriculturali-smo è fornito dalla centralità della Francia e in particolare di Parigi che secondo Hotineanu permette il dipanarsi di ri-creazioni autoriali, trasposizioni, riscritture e ri-invenzioni. Il quarto punto è incentrato sulla dimensione identitaria in quanto «l’autotraduction participe au processus d’interprétation linguistique, d’accoutumance psychologique et, enfin, de réinvention identitaire»: a partire da un monolinguismo che si apre all’esotico e successivamente al plurilinguismo (attraverso il viaggio), viene a crearsi una mescolanza di linguaggi che scoprono l’alterità e salutano l’apparire di una identità nuova, l’identità creola (sezione 5). Il punto 6 si incentra, invece, sui processi con i quali il lettore, a partire da un testo plurilingue, realizzato dall’autore tramite una «auto-traduction de l’auteur» (‘autotraduzione dell’autore’), rende, nella sua mente, il testo nuovamente monolingue. Secondo Hotineanu, «[l]e lecteur, en mimant l’hypothétique auto-traduction de l’auteur, s’imagine, en fait, la lecture monolingue du texte» in una spola continua tra testo plurilingue e lettura monolingue. Nel settimo punto, questo concetto viene mostrato attraverso esempi di plurilinguismo in romanzi russi del XIX secolo e in particolare in Guerra e pace di Tolstoj. Se inizialmente l’uso del russo si alterna al francese in modo giocoso e soprattutto in contesti di dialoghi mondani, con l’avvento della guerra, il gioco bilingue si trasforma in conflitto interlinguistico tra l’invasore francese e l’identità russa. Pertanto, nei punti successivi vengono esplorate le dimensioni identitarie del plurilinguismo in Tolstoj (in particolare per quanto riguarda il personaggio di Pierre Bezuchov, punto 8), e le difficoltà traduttive di un testo plurilingue (punto 9). I punti seguenti indagano l’idea di ‘autotraduzione autoriale’ e plurilinguismo in autori quali Liviu Rebreanu e Ion Dru??, che affiancano al romeno il francese (nel primo caso) e il russo (nel secondo). Autore di prosa l’uno, di drammi il secondo, il plurilinguismo che si manifesta nei loro testi pone interessanti questioni di carattere interpretativo, stilistico e traduttivo.
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